“Mai come mia madre” – urlò la figlia sbattendo la porta e liberando così quelle parole, ingabbiate per troppo tempo entro un velenoso silenzio.
Quindi Matilde salì di corsa le scale, si rannicchiò sopra il copriletto delle principesse di quand’era bambina, lì a massacrare unghie e speranze.
Poco prima di quello sbattere ed urlare, la ragazza si era svincolata dalle luci delle bancarelle di Natale in paese, indiscrete nell’affettare il buio che scendeva così presto.
Lo stomaco chiuso in una morsa, l’anima risucchiata dentro una stanchezza profonda, aveva allungato il percorso verso casa: avrebbe potuto camminare anche ad occhi chiusi sul sentiero pietroso tra le piante di fichi d’India e di origano selvatico. A pretendere spazio nello scompiglio dei pensieri un’idea martellante: no, come sua madre, mai.
Matilde non si sarebbe assuefatta.
Non sarebbe diventata come lei. Vinta, sottomessa, troppo intenta a lisciare la tovaglia, a togliere briciole inesistenti il giorno in cui, parecchi anni prima, aveva osato nominare quella parola: ndrangh…
Prima che fosse riuscita ad articolarla tutta, era arrivato lo schiaffo di suo padre.
Non un segnale, un gesto, una parola, neanche un sospiro, da parte di sua madre.
Se, al momento, a sopraffare Matilde era stato il senso di mortificazione, con il passare del tempo, quella parola non accolta si era depositata tra i suoi pensieri senza che riuscisse a dar loro un nome preciso.
Il ricordo di quello schiaffo, che aveva segnato un prima e un dopo, incrementava il timore di una dimestichezza familiare con qualcosa di inammissibile.
Il senso di inaffidabilità si era fatto strada in lei, giorno dopo giorno, mettendo radici dentro le mura di casa, insediandosi proprio nel luogo in cui si sarebbe dovuta sentire più protetta.
Quello di Matilde era diventato un camminare in punta di piedi, quasi un ciondolare, nascosta dentro strati informi di vestiario dove il massimo dell’esuberanza cromatica era un nero scolorito. Da evitare il più possibile i “cos’hai, cosa succede” delle amiche. Per strada, attenta a schivare l’incrocio di sguardi – se li sentiva alle spalle, come fosse un animale braccato – con un ciao frettoloso, sbrigativo.
Muscoli contratti e mascelle serrate durante i pasti in famiglia, la parola disprezzo che affiorava mentre lei avrebbe voluto scaraventare il piatto nel lavandino. L’immagine di suo padre non era più quella di chi era capace un tempo di aggiustarle il pattino senza rotella, le faceva l’occhiolino o l’afferrava all’improvviso e la roteava in alto. Il contatto tra loro due era diventato quello del dare, e ricevere, paghette mensili inspiegabilmente generose che lasciavano Matilde perplessa, incapace di parlare.
E cosa aveva a che fare sua madre con la donna che, quand’era piccola, la soffocava in un abbraccio quando tornava da scuola, le raccoglieva i capelli in due trecce, o la lasciava pasticciare col suo rossetto sulla faccia?
Tante le immagini – intrepidi i ricordi – da lasciar sbiadire.
Ma le accuse che la ragazza avrebbe voluto gridare erano solamente parole smozzicate, bisbigliate nel buio.
Dietro cuori e stampini impressi sul diario, dietro parole rubate a canzoni, a poesie, Matilde nascondeva le sue domande senza risposta mentre una muta guerriglia domestica – erano più le cose non dette che quelle dette – ogni giorno scagliava le sue frecce.
E, con gli anni, il silenzio si era sparpagliato sempre più attorno a lei.
Il prezzo per diventare grande Matilde l’aveva pagato: indaffarata ad allontanare i segnali d’allarme – meglio non sapere – a condannare in silenzio sua madre, così disposta ad accettare l’inaccettabile. La vedeva strascicare le ciabatte, quando non era a capo chino, a ricamare a mezzo punto asciugamani e lenzuola per preparare un corredo mai richiesto, per chissà quando, a sognare un abito da sposa per la figlia, dimenticando così le sue rughe arricciate intorno agli occhi.
Quando, con il botto di un fuoco d’artificio, era arrivato Rocco – per tutti Johnny – a distogliere Matilde dall’ingombro di inquietudini, la vita si era presa una pausa da tutto ciò che ribolliva dentro: finalmente c’era un corpo cui ancorarsi. Le braccia di Johnny, là sulla panca di pietra appena fuori dal paese, vicino alla pineta protesa verso il mare, rappresentavano l’antidoto, l’unica cosa in grado di attutire gli spigoli del dolore.
E tutto le confermava che era perfetto, pulito. Li vedeva Matilde gli sguardi delle amiche, ne avvertiva il loro spettegolare: uno come lui non si trovava tutti i giorni.
Quel tardo pomeriggio Matilde era arrivata prima all’appuntamento con il suo ragazzo; voleva comprare un regalo per lui e magari una sciarpa piena di luce per sé: il colore che prendeva il sopravvento sul nero indossato per anni. Aveva girato tra le bancarelle in quel quartiere disperato con le creature ai margini, ma il cuore preso dalle capriole, come sempre quando doveva incontrarlo.
Le luci sparate addosso con tutta la loro potenza artificiale arrivavano fino all’imbocco di un vicolo, là vicino ai cassonetti divelti.
E là l’aveva visto: il cappuccio in testa, la scritta inconfondibile sulla felpa. Johnny in compagnia di quelli.
Non era a disagio.
L’intesa sancita dalla mano sulla spalla di uno del gruppo indicava un rapporto, patti siglati accompagnati da risate che nulla avevano di forzato.
Li conosceva quelli. Li conoscevano tutti.
Il fiato sospeso, qualcosa che sterzava dentro, subiva una virata, e allo stesso tempo incollava a terra Matilde, mentre spifferi gelidi s’intrufolavano sotto il suo giaccone.
Nessuno l’aveva notata mentre si allontanava attraverso il sentiero, svilita.
Quando era rientrata in casa quel grido: – No, mai come mia madre!
Il futuro si presentava attraverso una sequenza di immagini, ognuna con la sua didascalia: stai zitta, impara ad ascoltare, non è affar tuo…
Una vita simile a quella di sua madre, una donna ammansita al pari di un animale domestico.
Al chiuso della sua cameretta, mentre si abbracciava le costole, gli occhi fissati ad una carta geografica appesa al muro, Matilde seguiva le linee che partivano dal suo paese: quante volte da bambina si era chiesta fin dove sarebbero arrivate se il bordo sbrindellato non le avesse interrotte.
Eppure sarebbe stato difficile lasciare una terra così: non solo le case popolari, le donne dalle facce scolpite vestite di nero, i matrimoni che, a volte, erano ancora una questione tra famiglie.
Ma anche la terra approdo millenario di chi, nell’incanto dei monti pronti ad arrendersi al mare – un equilibrio tra asprezza e miraggi di bellezza – aveva trovato la propria meta.
Matilde si alzò dal letto, si appiattì contro il vetro: la luce della stanza proiettata nel prato davanti mostrava la testardaggine della vite nell’abbarbicarsi alla corteccia grigia dell’ulivo secolare.
In preda a quel bisogno che prende dopo un inciampo, quando si cerca di mettere insieme le parti frantumate di se stessi, Matilde pensò che non si sarebbe aggrappata come la vite.
Come l’ulivo, avrebbe cercato nutrimento anche nell’aridità della terra.
E, come l’ulivo, avrebbe imparato ad accaparrarsi luce e sole, a resistere alle intemperie.
Sarebbe stata attenta a chi far entrare nella propria vita e chi estromettere.
Come l’ulivo, avrebbe potato i suoi rami.