Una malattia genetica
Nei racconti di Franz Kafka c’è qualcosa che impedisce loro di crescere e di conchiudersi. L’autore stesso ne era consapevole. Basta leggere Undici figli, per averne conferma. La sua scrittura soffre della sindrome da incompiutezza che affligge buona parte della narrativa novecentesca. A un certo punto, finisce per abortire. E rimane lì, aperta come un portone spalancato.
Quando di notte si passeggia per una via, e ci corre incontro un uomo già visibile di lontano perché la strada è in salita e c’è la luna piena − non lo afferreremo, anche s’è debole e cencioso, anche se qualcuno corre dietro a lui e grida, ma lo lasceremo proseguire.
Perché è notte, e non dipende da noi che la strada salga, dinanzi a noi, nella luna piena, e inoltre, forse quei due hanno organizzato quell’inseguimento per divertirsi, o forse tutt’e due inseguono un terzo, forse il primo viene inseguito senza ragione, forse il secondo vuol uccidere e noi diverremmo correi in un omicidio, forse i due s’ignorano completamente, e ciascuno di loro, sotto la propria responsabilità, se ne corre a letto, forse sono dei sonnambuli, e forse il primo ha delle armi.
E infine, non saremo stanchi, dal momento che abbiamo bevuto tanto vino? Possiamo esser contenti di non vedere più nemmeno il secondo.
L’inseguimento
Questo suo mini-racconto s’intitola I passanti e fa parte della raccolta Meditazione. La versione analizzata è tratta dalla raccolta di tutti i racconti pubblicata da Mondadori nel 1988 (primo volume, pagina 129).
L’ambientazione è notturna e indistinta. Le indicazioni relative al luogo in cui si svolge sono imprecise, volutamente generiche. Kafka adotta un inconsueto plurale maiestatis, una specie di impersonalità pluralizzata. Probabile indizio della volontà di identificarsi con l’umanità dolente.
Un uomo che urla ne insegue un altro, fragile e malmesso. I “narratori” scelgono di non immischiarsi, abbandonando quei due al loro destino, qualunque esso sia. Si avverte in questo atteggiamento la tendenza dell’autore ad accettare come perfettamente naturali eventi che invece dovrebbero apparire bizzarri o inquietanti. L’attenzione si concentra, comunque, più sull’inseguito che sull’inseguitore, la cui unica ragion d’essere è la presenza del primo.
Giustificazione non necessaria
Nel secondo capoverso, dopo avere ribadito l’ambientazione notturna, gli “osservatori” avvertono la necessità di giustificarsi (non dipende da noi), anche se in realtà non ce ne sarebbe bisogno, perché in fondo ognuno è libero di comportarsi come meglio crede nei confronti del prossimo. Segue un elenco di ipotesi, ognuna delle quali introdotta da un forse. Si pensa immediatamente alla più comoda. È tutta una finta: quei due si stanno divertendo. Un modo per tranquillizzarsi, scaricando la coscienza, legittimando ulteriormente la decisione di restarne fuori. La paura di poter essere complici di un delitto è palpabile. L’unica certezza è proprio l’incertezza: forse i due s’ignorano completamente che è poi anche la condizione in cui si dibattono i “narratori”.
I quali nella conclusione rimangono sulla difensiva. Espongono nuove giustificazioni, rivendicano il diritto alla stanchezza, all’ebbrezza, all’indifferenza, ma soprattutto al sollievo: possiamo esser contenti di non vedere più nemmeno il secondo. Anche stavolta l’hanno scampata. Fino a quando, non si sa.
Puoi leggere l’analisi di un altro mini-racconto di Franz Kafka.