“Il diavolo sulle colline” di Cesare Pavese è un romanzo breve del 1948 che fa parte del trittico “La bella estate”. Vale la pena leggerlo o rileggerlo per la potenza di una scrittura abbottonata, reticente – mutuata da Hemingway e Fitzgerald – e molto incisiva. Dal 2020 è disponibile in una nuova edizione Einaudi, con introduzione da Paolo Giordano.
Per esempio nella trilogia compaiono espressioni fulminanti: “Era una di quelle persone che alle feste veniva sempre salutato da qualcuno”. “La donna tormentava nervosamente l’anulare vuoto della mano sinistra”. Chiedo venia se le citazioni a memoria sono piuttosto approssimative. Cosa c’è da aggiungere a tanta insulsa mondanità e solitudine patita in silenzio?
Trama de Il diavolo sulle colline
Il cuore del romanzo è l’ingresso nella vita adulta di tre studenti universitari, a seguito dell’incursione in un mondo a loro estraneo. Sono Oreste, Pieretto e un terzo che funge da voce narrante, nonché testimone dei fatti.
Una notte, durante uno dei tanti vagabondaggi estivi tra chiacchiere e osterie fuori città, si imbattono nel rampollo di un noto proprietario terriero della zona. È il Poli: ricco, giovane, viziato e vizioso. Così si accodano alle sue scorribande. Gli studenti, dapprima intimiditi e un po’in soggezione, si fanno trascinare facilmente nel limbo festaiolo che, per il Poli, rappresenta la quotidianità. Propongo un passo in più: scambiano per confidenza l’atteggiamento anticonformista del giovane. Un equivoco in cui talvolta inciampano i semplici a contatto con persone abbienti che, a torto, hanno mitizzato.
Il Poli incarna il tema della ‘festa’ come rifiuto di crescere, declinando le proprie responsabilità di uomo e marito. Vado ancora a memoria, spero di non prendere una cantonata. Una frase fissa il personaggio: “Lui, che Torino di notte era sua.” Non è magnifica? È un verso endecasillabo contenente un anacoluto sintattico.
Invece Pieretto, Oreste e la voce narrante appartengono al ceto produttivo, perché possono studiare grazie al lavoro dei loro genitori.
All’anomala brigata si aggrega l’amante del Poli, più grande, sfiorita dai tratti pirandellianamente marcati. Una vinta dalla vita che non si rassegna alla parte di esclusa, dal momento che il giovane non nasconde l’intenzione di scaricarla. Un uomo come lui si annoia in fretta. Il sodalizio termina tragicamente allorquando Rosalba, questo il nome della donna, in un eccesso di rabbiosa gelosia, ferisce il Poli con una pistolettata. Ma i ricchi hanno sempre un santo in paradiso, tanto che il padre di lui mette a tacere lo scandalo. Sorge il dubbio non sia la prima volte che protegge il figlio.
Ellissi temporale e cambio di scena. Il trio sta trascorrendo l’estate presso la famiglia di Oreste in campagna. È tutto un parlare, prendere il sole sugli argini del fiume, corteggiare le ragazze. La parentesi col Poli è un’avventura da raccontare agli estranei. Nel frattempo si sparge la voce che il rampollo, reduce da una lunga convalescenza in Riviera, ha fatto ritorno nelle tenute avite. Il padre si illude di tenerlo lontano dalle tentazioni cittadine.
La frequentazione riprende, ma il sistema dei personaggi sembra vacillare. Oreste, Pieretto e la voce narrante si trovano davanti un Poli tormentato, malmesso, sprezzante che bistratta la moglie Gabriella: bella, superficiale, raffinata. Oreste, interpretando a suo favore l’ambiguità della giovane e accecato dall’ingenuo miraggio di salvarla, prende una bella sbandata da cui gli amici lo mettono in guardia. Conoscono il pericolo di una femmina seducente e divisiva come lei. Alla fine tutti i personaggi fanno i conti con la realtà.
Recensione
Anche in questo romanzo di Cesare Pavese l’iniziazione alla vita adulta comporta delusione e scontento, la città si oppone alla campagna. Chi ha fame di vita condivide con chi ne è annoiato la stessa inquietudine. Mentre il tema dell’assurdità esistenziale è letta in chiave etico – politica come estremo degrado della borghesia. Merita.
Di Cesare Pavese abbiamo recensito anche “Lavorare stanca” e “La luna e i falò“.