Murakami Haruki pubblicò “A Sud del confine, a Ovest del sole” nel 1992, ma arrivò in Italia solo nel 2000. Il titolo si riferisce erroneamente a una canzone che Nat King Cole in realtà non ha mai interpretato, ma che è fondamentale per l’intreccio e il messaggio della storia.
Seguendo la lettura condivisa per il mese di maggio del #leggendoilgiapponegdl di Marlah, ho letto l’edizione Mondolibri su licenza Einaudi, nella traduzione di Mimma De Petra rivisitata da Antonietta Pastore nel 2013. Dello stesso autore abbiamo recensito “Norvegian Wood“, “After dark”, “Kafka sulla spiaggia“, “L’incolore Tazaki Tsuruku e i suoi anni di pellegrinaggio”, “1Q84” e “L’arte di correre”.
Trama di A Sud del confine, a Ovest del sole
Cosa c’è a Sud del confine? Shimamoto e Hajime sono stati suggestionati da questa domanda per tutta la vita, da quando, a dodici anni, ascoltavano insieme una canzone con questo titolo. Si sono persi con la fine di un ciclo scolastico e si sono ritrovati venticinque anni dopo, quando lui gestisce un jazz club e lei è una donna bella, ricca e misteriosa. In questi venticinque anni le loro vite sono andate avanti nel sapore di quel rapporto unico e puro che avevano costruito. Hajime adesso è sposato e ha due bambine; Shimamoto non è più claudicante e si sa molto poco di lei, perché il narratore è in prima persona e possiamo conoscere solo quello che lei accetta di raccontare.
Com’è, incontrarsi da adulti che forse non hanno mai superato la loro solitudine?
Recensione
In questo romanzo abbiamo a che fare con un Murakami “realistico”, che non vede due lune in cielo e non parla con i fantasmi o con i gatti. Le cose che accadono sono sempre in quello spirito ineffabile della narrazione orientale, eppure allo stesso tempo estremamente reali. Ci si sofferma spesso, infatti, sulle esperienze sessuali e sugli errori del protagonista, tanto da dare alla storia un sapore autobiografico e a trasformarla quasi in una lettera di scuse o di giustificazione.
Pare inoltre che i ricordi dell’autore (o del narratore?) si siano mescolati e confusi. All’inizio del libro viene citata una bellissima canzone di Nat King Cole, “Pretend”, ed è probabile che nella mente sia rimasta associata a Cole anche la canzone che dà il titolo al libro e lo impregna nella sua attitudine al vagabondaggio. In realtà Nat King Cole non ha mai cantato una canzone con questo titolo. È più verosimile che si tratti di “South of the border” di Jimmy Kennedy and Michael Carr, cantata da Gene Autry per la prima volta nel 1939 e riproposta da Frank Sinatra (più facile da confondere con Nat King Cole) nel 1958.
Ho trovato questo romanzo dolcissimo e strappacuore. Il sentimento in cui questo placido protagonista si trova impantanato si consuma in silenzio, di nascosto, e annaspa dentro di lui considerando soluzioni insieme elementari e complicatissime. Rimanere o lasciare tutto? Sarà Shimamoto a condurre tutto, forse nell’unica maniera possibile. Con un finale che rimarrà per me tra i più significativi che abbia mai letto.
“In quell’oscurità pensai alla pioggia che cadeva sul mare. Alla pioggia che cadeva zitta zitta sull’immenso mare, senza che nessuno lo sapesse. Che colpiva senza rumore la superficie dell’acqua, all’insaputa persino dei pesci”.