“Il male oscuro” – Giuseppe Berto


Voto: / 5

“Il male oscuro” è un romanzo con cui Giuseppe Berto si è aggiudicato nel 1964 due premi prestigiosi nella stessa settimana: il Campiello e il Viareggio. L’edizione che ho letto è la ventiduesima della Rizzoli (1974).


Trama de Il male oscuro

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Con riferimenti a Italo Svevo e a Freud, l’io narrante parla di un percorso psicanalitico che lo ha indotto a raccogliere le sue riflessioni e lo fa servendosi della tecnica narrativa del monologo interiore, arrendendosi al flusso di coscienza.

Il racconto inizia con la morte del padre, con cui il protagonista (l’autore) ha sempre avuto un rapporto conflittuale, e prosegue, tra flashback e un uso scorrevole del passato remoto e del presente storico.

Attraversa le fasi più importanti della sua vita: il matrimonio, la carriera, la scoperta della forma di nevrosi che lui somatizzava.

Recensione

Più persone mi avevano presentato questo libro come impegnativo, ingombrante e deprimente. “Pesante”, era stata la lapidaria recensione dei più.

Per fortuna non mi sono lasciata scoraggiare e ho scoperto che è un libro talmente ironico e lineare che mi è dispiaciuto proprio molto finirlo.

Quando si sente parlare del flusso di coscienza si pensa forse a esperimenti estremi come l’“Ulisse” o il “Finnegans Wake”, in cui si viaggia liberamente tra associazioni di idee e anche libera sintassi. Ho trovato molto facile orientarmi in Berto, invece, e in alcune espressioni senza filtri o nel cinismo con cui ha commentato all’impronta alcune situazioni mi sono sinceramente divertita parecchio.

Chi apprezza lo stile fiume di Tabucchi, Saramago o Marías non troverà difficile leggere il Giuseppe Berto de “Il male oscuro”.

“(..) in quale enorme misura somigli al padre mio io lo vado scoprendo per mezzo di questa figlia Augusta a mano a mano che cresce, e sta’ a vedere che lui mi amava come io amo lei ossia immensamente potrei dire, ed ora mi dispiace non averlo capito quand’era ancora in vita e avrei potuto sia pure in parte ricambiarlo (…)”

C’è poi il versante doloroso. L’ho colto leggendolo sia da genitrice sia da figlia.

Da genitore, per me è stato doloroso assistere all’analisi di alcuni meccanismi automatici in funzione di qualcosa di accaduto nella fanciullezza, legato a un singolo episodio o a una risposta che è riuscito incredibilmente a influenzare tutta una vita successiva. La sensazione costante è stata di un grande peso di responsabilità: che un padre e una madre passino il tempo in una sospensione inguaribile e incomprensibile fra una scelta giusta e una sbagliata.

Da figlia, mi è stato evidente come cresciamo intrappolati in qualcosa che ci segna indipendentemente dalla volontà di tutti, e da cui ci si riesce molto difficilmente a liberare.

Consiglio questo libro a tutti: è anche uno spaccato sociale interessante dell’Italia del dopoguerra.

Nel 1989 è diventato anche un film, per la regia di Mario Monicelli

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