“Che tu sia per me il coltello” – David Grossman


Voto: 5 stelle / 5

“Che tu sia per me il coltello” è un romanzo epistolare di David Grossman pubblicato in Italia da Mondadori nel 1998. Incuriosita dalle innumerevoli citazioni che si trovano di frasi molto profonde, mi sono avvicinata alla lettura di questo libro. Dello stesso autore abbiamo recensito anche “Applausi a scena vuota“.


Trama di Che tu sia per me il coltello

Un romanzo epistolare, di lettere come quelle di una volta, in un mondo come quello odierno, fatto di messaggini rapidi e contrazioni di parole è sicuramente qualcosa di affascinante.
E affascinante è anche il modo in cui il tutto nasce: un semplice incontro di sguardi, in mezzo ad una folla numerosa, che spinge Yair a scrivere a Myriam, dapprima in maniera un po´timida, successivamente in modo quasi compulsivo, tanto da non poterne fare più a meno. E cosi, scrivendo anche due o tre lettere al giorno, egli racconta tutto di sé alla sconosciuta, svelando i suoi pensieri più intimi, i suoi turbamenti, raccontando il suo passato.
“Che tu sia per me il coltello con cui frugo dentro me stesso” è una delle citazioni più note del libro, ripresa dalle celebri “Lettere a Milena” di Franz Kafka, ma, se allo stesso modo si tratta di romanzo epistolare, ben diversi sono lo stile e il linguaggio usati, tanto che, a mio avviso, non sia proponibile un paragone o una somiglianza.
Yair inizia un rapporto epistolare più che per dichiarare i propri sentimenti come Kafka, in maniera più egoistica: parlare ad una sconosciuta per guardarsi allo specchio, per fare un viaggio dentro alla propria anima per capire veramente la propria natura, il proprio posto, in una accorata e profonda richiesta di aiuto e di salvezza.
Non si possono conoscere le risposte di Myriam se prima non si sono lette tutte le lettere di Yair e, sicuramente questo particolare scoraggia non poco il lettore.

Recensione

Il fatto che non ci sia una vera e propria trama, ma che gli argomenti si accavallino come in un vero e proprio fiume di parole, un flusso libero di pensieri, non fa che appesantire la lettura, resa poco fluida anche dall’uso ampolloso del linguaggio, che appare decisamente meno spontaneo rispetto a quello usato da Kafka nelle “Lettere a Milena” se proprio vogliamo fare un parallelo. Alcuni temi e pensieri, inoltre, vengono ripresi e ripetuti in più lettere, in maniera quasi ossessiva, petulante e prolissa, tanto da costringere a volte il lettore a saltare qualche paragrafo e andare oltre.
Chiaramente, la lettura di un romanzo introspettivo non è mai semplice, scavare all’interno dell’io comporta fatica e a volte dolore, ma se in molti casi, questo tipo di lettura offre spunti di riflessione, qui credo che se ne ricavi solamente una profonda inquietudine.
Grossman è sicuramente un gran paroliere, uno che sa giocare e usare le parole ad effetto, ma che cosa è una forma perfetta se non è accompagnata da un contenuto solido, se il lettore non ha la percezione di essere preso per mano? Semplice esercizio di stile.
E quando chi legge sente che colui che scrive non prova dentro di sé le sue parole si sente in qualche modo tradito.
Tutto quello che si può salvare di questo libro sono il titolo e la copertina, nessuno delle due opera dello scrittore.

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