In tempo sospeso

Sarà che le sfide a colpi di corna delle renne, tra muschi e licheni del thriller nordico, mal si conciliano con la calma quieta del panorama circostante.
Sarà che i nomi dei personaggi, accozzaglie di consonanti, sillabe triturate, stanno facendo confondere vittime e carnefici.
Meglio mettere il segnalibro.

Accomodata sulla sdraio, nella lingua d’ombra dell’ombrellone, dentro all’ultima eco di un’estate ancora carica di profumi, cui però il primo autunno sta contendendo le brezze, respiro quest’ora di tardo pomeriggio in cui tutto sembra fermo, in un tempo sospeso.
Solo la linea morbida del mare, in fondo, dove tocca l’orizzonte, vibra.
Il cielo è di uno slavato colore azzurro.

Giro lo sguardo intorno e, subito, la mia attenzione fluttuante è attirata dal bagnasciuga dove la forza della creazione si è impossessata di un gruppetto di giovani padri, i quali stanno tirando su dal niente qualcosa che al momento è senza una connotazione specifica: distinguibile è solamente un terrapieno.

Alla mia destra, con la stessa noncuranza annoiata come quando si aspetta alla stazione un treno in arrivo, una vecchia coppia attende l’ora di cena. Un movimento brusco di lui, nello spostare la borsa da spiaggia, sparpaglia sulla sabbia qualcosa. Quattro mani consumate, dalle vene come in un bassorilievo, si affastellano una sopra l’altra, ad arraffare biscottini e marmellatine colorate, bottino del buffet della colazione ad avversare un’imminente, quanto improbabile carestia.
Mi affretto a distogliere lo sguardo – preferisco raffigurarmele come persone rispettabilissime, dalle vite oneste contrassegnate da piccole imperfezioni – per non metterli in imbarazzo in un’età in cui si dipende dall’esito di una TAC, dove il presente si affievolisce con la determinata costanza della sabbia in una clessidra.

Impossibile, intanto, non tornare al prodigarsi dei lavori sul bagnasciuga dove si è formato un capannello di passanti ad osservare il corpo centrale di una costruzione che sta prendendo forma, mentre si innalzano torri angolari e bastioni.

Intercetto con lo sguardo una donna dalla pelle scura; sul viso una soavità solenne, sotto il braccio un catalogo aperto da cui affiorano fotografie di acconciature con trecce afro. Dignitosa, sosta non più di qualche secondo davanti ad ogni ombrellone, mettendo in bella vista le immagini. Non c’è nessun mercanteggiare; il contegno nell’andatura cadenzata e, allo stesso tempo, imperiosa, frena chiunque dall’essere sgarbato: è sufficiente un cenno del capo per far capire che il prodotto non interessa.
All’improvviso una bambina dello stesso color della pelle, la capigliatura crespa trattenuta da una fascia, due occhi enormi, sicuramente adottata – evidente il contrasto con la mamma biondissima – si rizza incuriosita. Di fronte ad un subbuglio imprevisto, ad un rapimento visibile nell’espressione della bambina, nonostante il caldo pomeridiano, avverto un brivido sulla schiena.
La piccola, affascinata, percorre col dito le treccine del catalogo della donna che ne sfoglia le pagine lentamente, senza parlare. La mamma chiede con dolcezza alla bambina, che non sa decidere, se vuol prendersi del tempo per pensarci.

Nel frattempo, in una dedizione capace di resistere a tutto ciò che c’è intorno, sul bagnasciuga i giovani padri hanno eretto un castello di tutto rispetto, tanto che si potrebbe immaginare un convoglio in avanscoperta avvicinarsi e lo zoccolare dei cavalli in lontananza: sarebbe da chiedere la concessione del passaggio con il pagamento della gabella di transito ai bagnanti incuriositi.

Poco lontano due bambini giocano; ogni tanto alzano lo sguardo verso la madre dalla presa assicurata, perseverante, irremovibile ed inflessibile al telefonino. La donna ha appena deliziato le orecchie degli astanti con il resoconto degli orrori perpetrati dall’insegnante di judo il quale non tiene in giusta considerazione le abilità dei pargoli.
Ad un certo punto, ad una richiesta dei figli forse più pressante delle altre, l’attenzione ne viene sollecitata, ma la risposta è una nota stonata, infastidita, fuori registro. Ritornano tutti e tre ai loro giochi, i bambini tra le formine e la sabbia, la madre di nuovo inafferrabile nella sua muta comunicazione con Google.


E’ facile in momenti così deragliare in maldestre fantasticherie, lasciarsi trascinare dall’incognita del domani inventando un film muto che va avanti con le sue istantanee, smuovendo vite che nulla hanno a che fare con la mia. E così, dentro questo tempo sospeso, già in scadenza, tiro ad indovinare giorni futuri, quando le immagini di una vecchia coppia, una bambina dibattuta, un gruppo di baldi costruttori dell’effimero saranno solo un passato prossimo.

Fantastico sul ciabattare di due vecchi: mi raffiguro la loro casa con la rubrica dei numeri di telefono, le lettere una sotto l’altra, a sbalzo, sulla destra, e ogni tanto uno da cancellare. E forse mentre l’ultima notizia di cronaca nera ascoltata alla televisione si travaserà in un sonno stentato, si intrufolerà, puntigliosa, la speranza di una nuova estate a scaldare le ossa.

Penso ad un rimpianto, fastidioso come un prurito, di una madre con il cellulare in mano, mentre rifà un numero a cui nessuno risponde e non si rassegna alle ostilità di adolescenti – pianeti che orbitano distanti – i quali consegnano la casa alla tortura di un silenzio senza più domande da porre.
Spero che degli uomini affaccendati non debbano nascondere il loro guizzo creativo dietro una mascella serrata; voglio immaginarli presi dalla stessa energia, dallo stesso scrupolo con cui un giorno hanno dirottato le loro energie per erigere un precario castello di sabbia lambito dall’acqua.
Divago sull’ingarbugliata, misteriosa complessità di una bambina con qualcosa di ventoso tra i neri capelli arruffati. La vedo mentre cerca, tra i pastelli sparpagliati sul tavolo, il rosso per i tetti, il giallo per i fiori che superano in altezza le case, ed il rosa ed il marrone alternati per colorare volti di bambini incatenati in un girotondo.
E, dopo essermi raffigurata una donna dalla pelle scura, dalla grazia maestosa e dallo sguardo dritto che cammina, marziale e principesca, nella sua malinconica noncuranza, ritengo di aver storpiato con disinvoltura, nella mia mente, le vite altrui.

Così come si sono presentati, lascio andare questi frammenti falsi, immaginati in tempi sfalsati, questo banale insinuarsi, senza un senso preciso, di immagini capricciose e di sicuro inattendibili.
Ritorno al tempo presente, pensando che basteranno pochi giorni perché, su questa spiaggia, con il mare grigio e le foglie delle piante di oleandro come lance ad ondeggiare, maglioni sulle spalle e il passo tranquillo di chi può permettersi la vacanza fuori stagione, restino in pochi.
E allora riprendo in mano il mio libro, mentre respiro a fondo quest’aria da tardo pomeriggio di domenica, ma una domenica di fine estate, quando i giorni hanno perso l’odore di un frutto troppo maturo, con quel qualcosa che ha la giusta dose di malinconia della nuova stagione incombente, in un tempo sospeso, di fronte alla distesa d’olio del mare.

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