Si accomodi in poltrona!

Non ha nessuna importanza il fatto che la vita ti abbia equipaggiata da tempo di una, seppur minima, dose di buon senso e l’esperienza continui ad addomesticarti: eccola l’ignobile regressione presentarsi puntuale prima di affrontare l’ambulatorio, la tentazione in agguato.
Altolà: non pensarci neppure.
Proprio tu che rifiuti anche una Tachipirina, non metterti adesso a fare l’occhiolino alle pastigliette di Xanax. Soffermati piuttosto sull’indubbia evidenza di essere sopravvissuta ogni volta ad una prestazione dentistica.
Per cui immolati, e va’!

Nella sala d’attesa sollevi gli occhi dalle parole senza senso del saggio scelto a casaccio, per portarti avanti, tanto nemmeno un thriller giunto alle pagine finali con la rivelazione dell’omicida, riuscirebbe ad accalappiarti. Speri che tocchi prima a lui: riconosci un noto stato d’animo sotto il ritmo sostenuto della gamba accavallata dell’uomo seduto di fronte che smanetta col cellulare, ma sorvoli su un possibile, insinuante, perverso mezzo gaudio.
Da tempo ti sei fatta le tue considerazioni, visto che appartieni ad una generazione in cui ripetevano all’ossessione di non accettare caramelle dagli sconosciuti, ma si guardavano bene dall’insinuare dei dubbi su chi avrebbe messo qualche strumento nella tua bocca. In un colpo solo, a tradimento, si presero le tue tonsille e, vita natural durante, la fiducia in chiunque si sarebbe avvicinato al tuo viso con un camice bianco. Un imbroglio mai perdonato, una diffidenza latente e tenace da riversare su una marea di dentisti.

Irrompe nella sala d’attesa l’assistente; ti ritrovi come a scuola, quando imploravi mentalmente che non fosse il tuo turno. Invece, con un sorriso puntato proprio addosso a te, a trentadue denti, tanto che le manca solo la scritta sulla divisa “prodotto a fini promozionali”, ti invita: – Si accomodi in poltrona.
Il significato del verbo starebbe nel mettersi a proprio agio. Invece sono quei momenti in cui avverti l’impotenza pervaderti; con l’opera di dislocamento da sala d’aspetto ad ambulatorio già avviata ed il corpo manifestante la sua perdurante contrarietà – al limite ti è concesso di strascicare i piedi – là devi arrivare: alla poltrona.
Là, dove non puoi usare la distanza come un’alleata.
E’ la stessa poltrona che, nelle sedute precedenti, con spropositata forzatura hai tentato di immaginare come amaca stesa sopra le onde del mare, senonché, ben lontano dallo sciabordio della risacca, il rumore del trapano unito a quello risucchiante dell’aspiratore, ti ha riportato ogni volta qui, incastrata, rigida come un baccalà, le mani ancorate, arricciate ai bordi.
Il tuo buon senso sbeffeggiato, confidi nella proprietà taumaturgiche della corretta respirazione. Ma dopo due o tre respiri il processo prende una via tutta sua che non svuota la mente, non sgombera proprio nulla. Neanche la crepa nell’intonaco che sul soffitto girovaga intorno alla lampada e ti sforzi di seguire con lo sguardo, lentamente, centimetro per centimetro, non ti accalappia che un attimo. Se crepa è, crepa rimane.

– In caso le faccia male muova la mano, la sinistra, mi raccomando, non la destra perché urterebbe il mio braccio, rischiando di provocare danni.
Come se, in momenti del genere, fosse semplice distinguere destra e sinistra!
Educazione o pura perfidia, inoltre, il fatto che il dentista tenti di coinvolgerti nella conversazione tra lui e l’assistente sull’ultimo fatto di cronaca o addirittura sulle questioni irrisolte dell’umanità? Quello che puoi fare con le fauci spalancate, l’aspiratore in bocca, è affidare ad una debole, impercettibile inspirazione un gesto d’assenso: qualsiasi cosa venga proclamata, sei d’accordo, magari confermando pure con la mano sinistra. Un sì vigliacco, una resa incondizionata di fronte a chi ha l’arma in mano.

– Ma che brava la signora – ah! l’amor proprio: diciamolo, a qualunque età della vita, sono pur sempre parole atte a gonfiare l’orgoglio di chi le riceve. Ti ritrovi come se all’asilo ti avessero spillato sul petto una medaglia di carta per meriti ricevuti, ma sei sollevata soprattutto perché è la frase che prelude all’altra, attesa da quando sei stata costretta a prendere possesso della poltrona: – Per oggi abbiamo finito.
Corretto il noi, anche se nessuno può immaginare quanto anche tu ce l’abbia messa tutta (innanzitutto hai lasciato nella sua scatolina lo Xanax). Quindi ti puntelli su un fianco, ti alzi dalla poltrona, armeggi con le articolazioni, infischiandoti degli scricchiolii alle ginocchia. Un cenno al paziente in sala d’attesa, ora non opponi resistenza ad un cinismo imbellettato da un sorriso anche se storto, sbavante per l’anestesia: – Prego, le lascio il posto – trasferendo perfidamente a lui quella preoccupazione viscerale di cui eri pervasa.

Esci alla luce, si allentano i nodi con cui avevi imbrigliato la mente mentre espiri nuvolette squisitamente medicinali.
Apprezzi il dono della libertà mentre agogni solamente la rigida, scomodissima poltroncina in ferro battuto del tuo giardino.

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