Treviso – Tarzo: sola andata

“Io esco Tullia, mi raccomando: prima di andare ai giardini fagli mettere il paletò. Aspetta almeno mezz’oretta però, che faccia più caldo. C’è una bavesela oggi…”

“Senz’altro signora.”

Tullia sbircia dalla finestra e aspetta che la signora si incammini verso il lungosile; appena sparisce alla vista, chiama i bambini: “Svelti, mettiamo il paletò: si va!”
Ne ha sballottati, voltati e rivoltati lei di bambini nei suoi diciassette anni di vita: fratelli, sorelle, cugini, cui a volte non veniva neanche dato il tempo di affezionarsi che il tifo se li portava via. Mai era stata la bavesela di una giornata di fine ottobre ad annientarli. Di sicuro i due piccoli – un maschio e una femmina – che da una decina di giorni Tullia ha il compito di accudire non moriranno di freddo!
Non con quei cappottini di lana caldi, morbidi. Averli a casa sua, dove invece la funzione di riparare dal freddo è affidata agli scialletti di lana ruvida fatti ai ferri o a giacchette che diventano sempre più fruste nel passaggio da padre a figlio, da fratello a fratello.

Al solo pensiero di casa, la smania di respirare all’aria aperta si trasforma in insofferenza verso i movimenti della bambina che si attarda nel sistemare i drappeggi del vestito alla preziosa bambola di porcellana.

Quel lavoro le era stato procurato da una paesana andata a fare la balia a Treviso ancora prima della fine della guerra. Venuta a sapere che una famiglia che abitava in una villa affacciata sulle acque del Sile, cercava una tosa che badasse ai bambini, una in gamba, che sapesse il fatto suo, aveva pensato a Tullia che conosceva bene. Sicura che non si sarebbe intimorita di fronte alla prospettiva di un lavoro, qualunque fosse, per prima cosa aveva interpellato il padre della ragazza.
Lui, senza neanche alzare la testa dalla pialla, davanti al suo tavolo da marangon, abituato com’era a prendere decisioni senza perdersi tra i “se” e i “ma”, non c’aveva pensato due volte: quando mai si rifiutava un’entrata in più?
Tullia, dal canto suo, non si era tirata indietro: a casa o da un’altra parte, sempre lavoro era. Abituata a sgobbare fin da piccola, nei suoi ricordi appariva uno scagnel – non sapeva neanche quanti anni avesse avuto – fatto per lei da suo padre perché potesse arrivare all’acquaio per lavare i piatti. Da sempre aveva aiutato la mamma ad occuparsi dei bambini di casa o anche, all’occorrenza, di quelli delle famiglie vicine. Si rivedeva bambina nel pezzetto di terra tra la casa e il lago, mentre spaccava le zolle di torba a colpi di zappa o vicino al focolare a mescolare polente. La filosofia spiccia del padre, racchiusa in due parole: “lavorare bisogna”, aveva attecchito dentro di lei come le edere che strangolavano la cortecce degli alberi sui quali si arrampicava in cerca di nidi dal contenuto ghiotto da accompagnare alla polenta.

Sistemate dentro una sporta poche cose, un vestito di ricambio, un po’ di biancheria, una busta con un pettine per quei capelli ribelli, indomiti come lei, era partita con la corriera insieme alla conoscente. Lasciava il paese per trasferirsi in città, a quaranta chilometri di distanza.
Si allontanava dal suo lago e dalle colline; di fronte si apriva la pianura con i riquadri ancora verdi, i filari di vigne spelacchiate, i campi di pannocchie che entro poco sarebbero state strappate e ammucchiate sotto i porticati dei casolari.

Dopo quasi un’ora di viaggio, tutto era cambiato: era quella Treviso? Attraverso i vetri del finestrino le case si alternavano a gruppi di macerie: il bombardamento di un anno e mezzo prima – il 7 aprile 1944 – era ancora visibile nei calcinacci ammucchiati in tanti quartieri.
La villa bianca, con le alte finestre ad arco, dove la paesana aveva accompagnato la ragazza, era stata fortunatamente risparmiata dalla guerra.

Tullia aveva notato il sopracciglio della signora che l’aveva accolta sollevarsi, come se stesse soppesando quella ragazzetta pelle e ossa, alta sì e no un metro e 50. Sarebbe stata in grado di accudire i suoi figli? Lo sguardo di Tullia non si era abbassato: occhi negli occhi della signora, sembrava comunicarle che non si faceva intimorire da nessuno, né si lasciava abbagliare dai marmi del pavimento o dagli arredi sontuosi appena intravvisti in quella casa. Rispettosa sì come le aveva insegnato la mamma, ma ossequiosa mai come l’aveva abituata il padre.

Erano bastati solo pochi giorni perché Tullia mostrasse che ci sapeva fare. Ad eseguire puntualmente ciò che era necessario. A lavorare di gran lena. A non farsi mettere i piedi in testa. Né dai piccoli, con cui condivideva l’entusiasmo nei momenti di gioco, ma imponendo le regole. Né dai grandi, sorpresi da tanta, inaspettata efficienza.
Convinta che quei bambini così pallidi avessero bisogno di stare di più all’aria aperta, lo diceva chiaramente alla signora, conquistando, in questo modo, la loro e la sua libertà. Anche se, una volta usciti, finiva per guardarli con compatimento: come potevano quelle creature correre, arrampicarsi sugli alberi dei giardinetti, buttarsi per terra dentro i paletò, pur confortevoli e caldi?

Dai finestroni della casa le capitava di seguire a volte il movimento placido del fiume Sile, le lievi ondulazioni cullavano una ricorrente nostalgia, le ricordavano lo specchio d’acqua poco distante da casa sua, circondato a tratti dal canneto con i pennacchi piumosi.
La sera, quando l’ultima luce del lampione al di là del fiume si spegneva e rimaneva l’inchiostro del cielo, immaginava il filò nelle stalle del paese, le donne che rammendavano, che recitavano il rosario, gli uomini che aggiustavano gli attrezzi, qualche vecchio che raccontava le solite storie…

Ed ora per strada stringe le mani dei bambini, uno per parte.
Mentre cammina, stamattina i suoi occhi cercano più delle altre volte le montagne che, così distanti, appaiono di un azzurro sciapo, ne distingue i profili grigi, immagina l’arruffio dei cespugli in basso a fare da passaggio graduale ai prati.

E’ quello il suo mondo. Lì sono i suoi tesori. Finito da poco il tempo delle castagne che esplodono dai ricci, adesso invece è l’ora dei funghi chiodini: ne sente l’intenso odore di terra, le sembra di toccarli. Nell’atmosfera brumosa delle mattinate autunnali poter camminare tra l’erba umida o sentir crocchiare il muschio ancora impregnato della brina notturna. Immergersi tra i rovi, anche se lasciano per giorni i segni nei polpacci nudi, in cerca dei funghi nascosti, in una frenesia che fa accelerare il battito.

“Attenta Tullia, la macchina!”

Il clacson di una Topolino la scuote, la distoglie brutalmente dai suoi pensieri. Stringe più forte la mano dei bambini: non è abituata alle auto. Quando ne era passata una al paese tempo prima, tutti i ragazzini erano corsi in strada, ammaliati di fronte ad una tale rarità. Fossero qui i fratelli a vedere il movimento della città!
Mentre stanno attraversando il piazzale della fermata della corriere, Tullia improvvisamente si blocca. La sua attenzione è calamitata dalla scritta in alto, sul finestrone davanti dell’automezzo parcheggiato proprio di fronte: TREVISO – TARZO.

Quella corriera va al suo paese. Dalla sua famiglia, dalla sua gente. Sulla strada sinuosa che taglia i paesini e poi affianca il lago.

“Cosa fai Tullia? Non dobbiamo andare da questa parte. I giardini sono di là!” Neanche si rende conto che il corpo agisce d’istinto, annientando qualsiasi barlume di ragione, sta strattonando i bambini, già li trascina nella direzione opposta rispetto a dove erano diretti. Il nome del suo paese: un annuncio messo lì per lei, un richiamo a cui è inutile opporre resistenza.

Non vede l’ora di riportare a casa i bambini, consegnarli, riprendere le sue tre cose.
La corriera. Solo la corriera le importa. Non può perderla.

Chiederà un biglietto: Treviso – Tarzo.

Sola andata.

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  1. annamaria gazzarin 23/02/2021

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