L’animazione giapponese e gli orfani

Le avversità sono necessarie

I protagonisti di alcuni cartoni animati giapponesi passano da una condizione di moderata agiatezza a una di estrema povertà, per poi tornare alla condizione originaria o quasi, seguendo un movimento circolare: dall’alto al basso e dal basso all’alto. In altri casi ci si muove direttamente dal basso, perché c’è solo la miseria.

È lo schema classico della fiaba: si parte da uno stato di equilibrio compromesso e si raccontano le peripezie che piovono addosso al protagonista mentre cerca di recuperare una condizione di stabilità. Le avversità sono necessarie, come si legge nella Storia del principe Zeyn Alasnam e del re dei Geni, tratta da Le mille e una notte: «Mio figlio […] non è degno di compassione perché dovrà essere coraggioso. È necessario che i principi abbiano delle disgrazie, perché l’avversità purifica le loro virtù, e da ciò imparano meglio a regnare».

 

Il meccanismo dell’agnizione

Le “disgrazie” prevedono anche la ricerca di qualcuno, che può essere un parente o un partner. E qui i giapponesi utilizzano un trucco tipico del teatro antico: l’agnizione. Consiste nel «riconoscere o il riconoscersi di persone in particolari circostanze; spec. il riconoscimento di uno o più personaggi che ravvisano la loro personalità fin allora sconosciuta» (Dizionario Enciclopedico Treccani).

Aristotele, nella sua Poetica, ne individua quattro tipi: quello originato dai segni: corporei (tatuaggi, cicatrici, ecc.) ed “esterni” (legati a oggetti posseduti dalla persona: spille, medaglioni, gioielli, ecc.); quello originato dalla memoria (ascoltando una storia, oppure vedendo un oggetto); quello originato da un ragionamento logico; quello scaturito dall’azione stessa (e non meglio specificato).

In pratica, verso la conclusione della serie si riesce a scoprire l’identità di un personaggio misterioso, oppure a riconoscere qualcuno che si è avuto sotto il naso per tutto il tempo. Sam il ragazzo del West e Remì, alla ricerca rispettivamente di padre e madre, prima di riunirsi a loro, li incontrano senza sapere chi siano. Candy Candy scopre chi siano il Principe della collina e il fantomatico Zio William che l’ha adottata, vale a dire la stessa persona. Lulù l’angelo tra i fiori, accompagnata nella sua missione da un misterioso ragazzo, scopre che non è ciò che sembra. Eccetera.

 

I “senza famiglia”

I personaggi citati hanno una caratteristica comune: sono tutti orfani. Quelli che hanno entrambi i genitori sono più rari dei rinoceronti bianchi. Le condizioni più frequenti sono due. Uno dei genitori è deceduto, durante la serie oppure dietro le quinte. Il superstite può essere la madre (Sandybell, Charlotte, Chobin, Trider G7, Remì) o il padre (Sam ragazzo del West, Daltanious, Vultus V, Tommy stella dei Giants, Hurricane Polymar). E va ritrovato, una volta scoperto che è ancora vivo.

Innumerevoli, poi, i casi in cui i genitori sono entrambi defunti. Il protagonista se la deve cavare da solo. Può essere del tutto orfano fin dall’inizio dell’anime (Candy Candy, Lulù dei fiori, Daitarn III, Il grande Mazinga) oppure diventare tale in corso d’opera (Peline Story, Danguard, Judo Boy). Le veci dei trapassati vengono spesso svolte con amore da altri parenti: zii o nonni, naturali (Sampei, Heidi) oppure acquisiti (Lalabel).

Questo proliferare di “senza famiglia” ha sicuramente motivazioni narrative. In Storia delle mie storie la scrittrice per l’infanzia Bianca Pitzorno afferma: «Essere orfani di madre è la peggior disgrazia che possa capitare a un bambino. Ma è anche uno degli espedienti narrativi più importanti per dare avvio a una storia. Senza orfanezza, nei libri per l’infanzia del passato non c’era quasi mai avventura, perché chi sarebbe stato così folle da abbandonare il nido o il “focolare” se non sbattuto fuori da un crudele destino?».

Ma gli orfani presenti in queste serie animate riflettono – o meglio denunciano – anche la condizione familiare dei ragazzi giapponesi. Il padre è completamente assorbito dal lavoro e non è quasi mai a casa: trascorre la maggior parte del suo tempo in azienda. Questo, durante gli anni ’80, ha provocato l’insorgere della «sindrome del padre assente», che consiste in un declino della figura paterna dal punto di vista simbolico e affettivo. Se si aggiunge che adesso si sono messe a lavorare anche le madri, il quadro è completo.

Questi ragazzi e queste ragazze rimasti soli possono – anzi, devono – contare esclusivamente sulle proprie forze. Nessuno li aiuterà nella battaglia per la conquista di un ritrovato equilibrio. Le loro armi sono la determinazione e la costanza. Non si arrendono mai. Perché, come afferma un personaggio della serie Galaxy Express 999: «Un uomo non deve arrendersi mai, ma bisogna continuare a perseguire le proprie mete, malgrado le sconfitte. Per questo siamo uomini!». La grammatica, magari, lascia a desiderare, ma il concetto è chiarissimo.

I cartoni animati giapponesi, insomma, esaltano l’uomo che si è fatto da sé medesimo, che primeggia nella vita grazie a doti come il coraggio, la volontà e l’autodisciplina. Che si abbia o meno una famiglia alle spalle, tutto questo comporta un notevole dispendio di energie, fisiche e mentali.

Le risorse, questi personaggi, devono andarsele a cercare dentro di sé. Attingendo, magari, anche a fonti “esterne”. Le motivazioni che spingono a stringere i denti si appoggiano su un senso dell’onore a dir poco incrollabile e sul valore dato all’amicizia. Gli amici si scambiano frasi come: «Non importa dove saremo: la nostra amicizia ci terrà uniti per sempre». Oppure: «Anche se saremo lontani, la nostra amicizia durerà per sempre». Soprattutto, credono fermamente nel valore della parola data. Chi promette, mantiene sempre. Quanto meno, fa di tutto per riuscirci.

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