L’anniversario

Sabato: ore 23.50.

Come tutti i sabato sera sono qui, seduta al piccolo tavolo. Sul lavello i piatti, graziati da un equilibrio che negli anni ho reso sempre meno precario, anzi impilati ben bene, devo dire, mentre lo sguardo vaga in questa cucina del ristorante. Sono in attesa della loro distribuzione logistica dentro la lavastoviglie, ma possono aspettare; le tavole sono state sistemate, ripulite da tutto il loro caotico, disordinato e untuoso armamentario, il pavimento spazzato.

Mi godo questo momento prezioso quando gambe, braccia, collo, pian piano si rilassano, dopo che dalle orecchie si è allontanato lo strepito di una clientela esigente, quando la tensione per la paura di essere catapultata è svanita: chi ha la precedenza tra me e i bambini sbaragliati in percorsi a slalom, neanche si allenassero per un futuro di piloti di Formula Uno?

Non sono sola, con me a dividere questo tempo il gestore: ci conosciamo da anni. Ho imparato che, solo in momenti così, permette al suo carattere di far trapelare un minimo di buonumore nella comunicazione, senza esagerazioni, s’intende.

Gli aumenti di stipendio o la richiesta di qualche ora di permesso li ho strappati sempre il sabato sera, sempre verso mezzanotte, quando il silenzio finalmente cala a confortarci.

Discorsi neutrali, commenti su questo materiale umano che abbiamo finito, per stasera, di servire, spesso sopportare, ma per me anche oggetto di osservazione spesso sorprendente.

— A proposito, domani abbiamo la prenotazione per un anniversario di matrimonio. Sono in 24.

62… 62 anni di matrimonio. Una medaglia al sacrificio, altroché. Bah!

Comunque domani prepara un tavolo lungo, lascia spazio per gli sposini, così magari incastriamo pure le sedie a rotelle. E attenta, quando ritiri i piatti, che non mi ritrovi le dentiere in cucina. Ti chiederanno di portarsi via gli avanzi. Avanzi per gatti: i vecchi, si sa, hanno sempre gatti da sfamare. Poi magari se li mangiano loro…

Questo è appunto il livello di buonumore a cui può arrivare: sarcasmo ingentilito però per chi lo conosce, come me.

Domenica: ore 12.15.

Sulla porta della cucina osservo la sala: tutto ineccepibile, anche i fiori che ho sistemato sopra il tavolo, abitudine che coltivo per non atrofizzare completamente quella fantasia che i rituali richiesti da un lavoro come il mio rischierebbero di sopprimere e di cui, fortunatamente, madre natura mi ha provvista.

Poco dopo iniziano ad arrivare. Vedo prima lei, la festeggiata, una cosina minuscola, lievemente accartocciata, ma dall’andatura quasi spavalda mentre muove i passetti sui tre gradini che collegano l’entrata alla sala.

Si guarda attorno con due occhietti vivissimi, mobili, sofferma lo sguardo compiaciuta sui tavoli e su tutto quello che c’è sopra. I capelli bianchi, dalla simmetria perfetta, freschi di parrucchiere, hanno ancora un certo volume. Un sorriso spontaneo le illumina il viso magrissimo dove il fondotinta è riuscito egregiamente a coprire buona parte dei solchi impietosi dal tempo. Il cappotto elegante, aderente sulle spalle, lascia immaginare l’osso sporgente delle scapole; un filo di perle, vezzo di una femminilità non del tutto predata dalla vecchiaia, le circonda il collo.

Le vado incontro, mentre mi si avvicina; lascia per un attimo una delle mani incartapecorite che tiene avvinghiate, davanti al petto, alla borsetta dal manico a mezzaluna, indica il tavolo e mi chiede se può spostare una delle composizioni di fiori per sostituirla con un vaso che ha preparato lei.

La voce è fievole, ma non tentennante.

— Sa, signorina, facciamo 62 anni di matrimonio. Ci tenevamo tanto a festeggiarlo con tutta la nostra famiglia.

Possiamo iniziare alla mezza? Mio marito alla puntualità ha sempre tenuto. Ecco, vede, vorrei mettere qui dove siamo noi due delle calle bianche: sono sempre stati i nostri fiori preferiti.

Dietro di lei intanto si accumulano, in un ordine ancora controllato, gli altri familiari.

Li lascio affaccendarsi con i fiori; ce n’è da fare in cucina, anche se siamo a buon punto. Ma il pranzo sarà complesso: dall’antipasto al dolce – mi ha detto il gestore – e che non manchi nulla – gli è stato raccomandato.

Domenica: ore 12.25.

Non c’è di peggio che non rispettare i tempi con i vecchi – mi dico – così inizio portando in sala le caraffe del vino e dell’acqua.

Eccoli, sono tutti sistemati: la sposina con il sorriso soave, tre figli corredati di mogli, alcuni anziani. Amici? Forse i testimoni di allora? Parecchi bambini: nipoti, probabilmente anche pronipoti.

E lo sposo?

Bell’uomo ancora, in doppiopetto principe di Galles, ben piazzata la giacca sulle spalle larghe, camicia bianca dal colletto inamidato, capelli radi, appena brizzolati, ma pettinati con estrema cura; sotto le sopracciglia lievemente cespugliose degli occhi pungenti. Dotato di baffi e di due virgolone di basette che danno al volto un’impronta di indubbia autorevolezza, anche lui con un sorriso accattivante, ma nello stesso serafico, beato, di chi non ha nient’altro da fare che godersi la numerosa, vitale famiglia.

Non una piega quando lei gli fa una leggera carezza. Immobile.

Imperturbabile anche nel frastuono che i piccoli stanno iniziando a fare per accaparrarsi la stessa sedia.

Nessun cenno quando la sua compagna di vita si piega a mormorargli qualcosa, ma probabilmente d’accordo, qualsiasi cosa gli abbia comunicato.

Lì, ben centrato, con la sua aria distinta, nel posto che nessuno gli può togliere, dentro la sua cornice d’argento, posizionata di fianco al piatto di lei, vicino al vaso dove sono state sistemate le calle.

Il lumino acceso che gli ha messo davanti, come ulteriore accessorio, crea strani movimenti al viso nella foto, gli smuove la bocca che, a tratti, sembra sorridere; negli occhi provoca sfavillii passeggeri. Una stradina di pastigliette – chi non ne ha a quell’età? – che lei si è preparata sulla tovaglia crea un collegamento diretto: dal posto della sposa si avvicina a quello dell’estinto.

Uno dei figli che intercetta il mio sguardo sbigottito, incredulo, dopo aver abbassato la testa, impegnandosi al massimo per tracciare disegni improvvisati col piede sul pavimento, decide di alzarsi e mi accompagna mentre sto tornando verso la cucina.

— Mamma ci teneva molto. Ha una mente lucidissima, non creda, ma… non so che dire: è fatta così. A proposito, avete dello spazio per mettere le bomboniere da distribuire alla fine? Le ha fatte tutte lei, all’uncinetto.

Domenica: ore 17.

Siamo di nuovo al tavolo di cucina, un altro dei brevi momenti di tregua in cui finalmente sorseggiare questo caffè che bramiamo da almeno un paio d’ore. Di fronte a noi una bomboniera lasciataci in omaggio “ perché siamo stati contenti; è stato davvero un bell’anniversario, era tanto che non trascorrevamo una giornata così” .

Finiamo il caffè; il gestore – ti pareva – mi fa l’interrogatorio, come se io sapessi, avessi chiesto, indagato, cercato, capito, valutato. No, io non ho chiesto, indagato, soprattutto non ho capito e valutato. Ed ho poca voglia di parlare, commentare.

Forse perché passando e chiedendo magari: – Ancora riso ai funghi? un’ altra fettina di brasato? il bis di cipolline in agrodolce? – mi chiedevo ogni volta se anche a lui, a suo tempo, chissà quando, fossero piaciuti.

O forse perché da dire ce ne sarebbe tanto, ma mi avventurerei in un terreno sconosciuto, dove l’assurdo cozza con una normalità inaudita, dove l’assenza è più che mai presenza, dove ciò che di solito è una linea retta – punto, stop, finito – si è rivelato una semiretta, con i suoi tratteggi di continuazione. Mi arrendo di fronte all’inverosimile, ma soprattutto, parlando, mi sembrerebbe di ingannare quella donna, avere la supponenza di comprendere ciò che è incomprensibile, violare le sue parole che prevedono sempre la prima persona plurale come soggetto,

Anche il gestore allora se ne sta in silenzio mentre si rigira tra le mani il cartoncino della bomboniera su cui sono scritti una data, i nomi, una frase: “ 9 febbraio 1958 / 9 febbraio 2020: Brigida e Renato, un amore lungo tutta la vita”.

E anche oltre, direi.

 

Loretta Casagrande

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  1. annamaria gazzarin 25/05/2020

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