Mozzafiato: parola quanto mai irritante. Da sempre, in qualsiasi contesto venisse usata, le dava fastidio. Troppo facile definire una montagna, una scogliera, un tramonto “mozzafiato”: cosa resta da aggiungere? Con un altro aggettivo lasci spazio all’immaginazione. Bello, per esempio, sembrerebbe banale – infatti la maestra a scuola ti spronava a sostituirlo con un sinonimo – ma vuoi mettere? Ti lascia fantasticare: quanto bello? tanto, abbastanza? Oppure incantevole: ha qualcosa di magico. Piacevole? Ispira fiducia ma lascia un dubbio: piace a tutti? Mozzafiato no. Già la prima parte di questo termine composto taglia, suggerisce l’uso di un’arma magari per un rito brutale; se poi l’attacchi a forza con la seconda va a toccare una funzione fondamentale: come ci si può sentire senza respiro?
A lei il respiro era mancato quando la sua amica Ivana le aveva parlato della ragazza che aveva visto insieme a suo figlio definendola addirittura mozzafiato. Avesse detto elegante o carina come spesso si fa, tanto per dire: no, proprio quella parola aveva adoperato. Così non restavano speranze, non c’era scampo che quel figlio unico, venerato e contemplato, non partisse per la tangente, ma forse il viaggio era già a buon punto da come aveva malignato Ivana.
L’avevano cresciuto investendo tutto su di lui e, dopo che era rimasta vedova, cosa le poteva offrire la vita, se non occuparsi completamente, senza risparmio, di quel figliolo? Alzarsi di buon mattino per fargli trovare il caffè pronto, un cucchiaino e mezzo di zucchero già mescolato, le scarpe controllate e appaiate sul primo gradino, per arrivare ai rituali della sera: primo fra tutti il pigiama caldo sul termo e, ultimo, la tisana sul comodino. Anche i pensieri che la accompagnavano durante il giorno – inutile precisare – gravitavano intorno a lui: il suo Giulio.
Invece così le aveva riferito Ivana, con quella boccaccia, che l’aveva visto abbracciato ad una; mentre sputava il discorso si poteva intravvedere un guizzo velenoso negli occhi: eh già, lei di figli non ne aveva. Ma l’amica, che a tutti e a tutte trovava difetti, il gusto estetico lo possedeva, eccome, e se diceva mozzafiato non era a caso: così doveva essere.
Vien da pensare che Giulio, protetto dentro la bambagia che attorno gli era stata accomodata, fosse viziato, pretenzioso. Nossignori. Inopportuno che da una causa si pretenda di intuire l’effetto più scontato: quel figliolo invece era cresciuto proprio bene, rispettoso con lei e con tutti. Quante volte aveva cercato, se non proprio di ostacolare, almeno contenere le cure materne?
La richiamava, la prendeva bonariamente in giro: – Mamma, ma esci, vai, non preoccuparti per me.
Oh bella questa! Se non si preoccupava lei, chi doveva occuparsi di suo figlio, vita della sua vita? Ragazzo affettuoso, dopo cena stava anche un’ora a parlare, quasi a volerla ripagare di quel tempo che gli dedicava, di quell’amore totalizzante. Aveva tentato di regalarle un abbonamento al cineforum, ma lei l’aveva passato ad Ivana. – Perché mai ? – le aveva chiesto dispiaciuto. – Perché il film comincia all’ora in cui tu arrivi per cena – era stata la risposta tassativa e la faccenda era chiusa. Giulio aveva capito che si trattava di un’altra battaglia persa, una delle tante che lui, sconfitto, faceva terminare con quel buffetto che le dava sulla guancia: non c’era altro di cui discutere.
Dopo l’annuncio di Ivana, quel pomeriggio aveva atteso il ritorno del figlio tormentandosi mani e cuore; quando finalmente era tornato, l’aveva osservato: non aveva niente di diverso. Se Giulio avesse detto qualcosa, anche solo un cenno, ma lei no, non se la sentiva proprio di affrontare l’argomento: come gestire quell’inferno che aveva dentro?
Era iniziata così quella notte e, chiedendo subito perdono se si pensa di intravvedere della presunzione ad avventurarsi in certi paragoni, a noi viene in mente un’altra notte, quella di un ben noto personaggio dei tempi passati per cui “ tutte l’ore (erano) somiglianti a quella che passava così lenta, così pesante sul capo”. Se nella prima parte aveva sperato che i pensieri le dessero tregua, con l’andar del tempo cominciava a disilludersi. Sempre con un’immagine davanti, magari non propriamente vera, ma immaginata, costruita e poi demolita, nuovamente ricreata che tornava per dirle: -Tu non dormirai. Anche lei cercava qualcosa che occupasse la mente, ma al di fuori di Giulio c’era il niente. Certo, a differenza di quell’altro, non aveva da chiedere perdono a nessuno: non c’erano crimini, meno che mai efferatezze, nella sua coscienza. Cosicché in questo caso, per fortuna, di scomodare il Padreterno non c’era assoluto bisogno. Ma ognuno si porta il bagaglio suo.
Assorta nelle contemplazioni tormentose, alzava e abbassava le coperte.
– E poi che farò domani, il resto della giornata? Quale maniera di passare i giorni? Perché non provare a riprender le antiche voglie? – si chiedeva quel potente signore.
Ma lei?
Una parola! Quali voglie? Talmente abituata a non pensare ai suoi di desideri, non li riconosceva più, nascosti e sepolti sotto quel mare di cure da prodigare a Giulio.
Come l’uomo dei tempi remoti che si dibatteva nei grovigli dell’anima, neppure lei aveva pensiero che le recasse conforto, né quelli del passato che la trascinavano ingolfandola nell’esame di tutta la sua vita, meno che meno la rincuoravano le prospettive del futuro dove per lei non c’era presenza, scopo. Lasciava da parte un’idea, veniva rincorsa, avvinghiata da un’altra, non meno angosciante della prima. Se, desiderosa di dissipare il buio, se non quello dell’anima almeno quello della stanza e accendeva la luce, dal ripiano del comò, dentro le cornici argentate, appariva Giulio: col ciuccio in bocca, sul triciclo, con il grembiulino e l’espressione impaurita, con la tunica della prima comunione e il viso assorto, con la ghirlanda d’alloro e l’esultanza in volto. E ora, una sconosciuta glielo strappava.
I primi chiarori dell’alba la trovarono sudata, sfinita, sfibrata. Da fuori intanto arrivavano i primi movimenti del giorno, dei suoni non bene espressi ma pieni di vita. Gente che andava, correva, viveva, che assaporava la vita, che la tastava, la respirava. La propria vita, non quella degli altri, si trattasse anche dei figli. E lei dov’era stata fino ad allora? Non era una sciocca: capiva che doveva assestare una svolta decisiva ai suoi giorni. Facile a dirsi. Ma da dove iniziare? Quale azione automatica fronteggiare, smantellare per prima?
Ci piacerebbe asserire che quella notte avesse portato lo stesso buon consiglio che illuminò il tormentato signore dei dì passati e che aveva fatto sì che dal giorno dopo, zacchete, cambio totale di vita assicurato. Ma noi, anche se ben lontani dalla capacità di entrare nell’animo umano di colui che, con la sua penna, delle tribolazioni di tal signore si era egregiamente occupato, osiamo affermare che, in questo caso, ci sia voluto del tempo a sgretolare le incrostazioni fatte di rituali e di abitudini consolidate. Forse sono seguite altre notti come questa; è probabile che si siano alternati momenti di speranza e di afflizione, di pace illusoria e di inquietudini.
Ma, col passare del tempo, ci è stato confidato che le mele tagliate regolarmente a fettine e preparate sul piattino non si siano più viste, che il pigiama ora aspetti freddo, abbandonato sulla sedia, il legittimo proprietario, che Giulio abbia fatto strabuzzare gli occhi dei colleghi presentandosi al lavoro con la giacca che non si abbinava ai pantaloni.
Se il figlio qualcosa, ma solo apparentemente, perdeva, pian piano sua madre acquistava. Difficile dire cosa, forse una luce nello sguardo, ma una luce propria stavolta, non riflessa.
Siccome però curiosi lo siamo, abbiamo continuato a chiedere di lei.
Ci è stato riferito che, proprio uno di questi giorni, è stata notata mentre si dirigeva con passo sicuro verso l’agenzia viaggi di centro città. Il nostro informatore non ha ben capito cosa abbia chiesto di preciso una volta entrata, ma la ragazza addetta al servizio, cordialissima, come risposta le aveva mostrato un depliant, aggiungendo: – Se è la prima volta, consiglierei questa località: qui il panorama è mozzafiato.
Lei aveva restituito con un sorriso garbato, ma anche con fermezza il foglio, non aveva detto nulla, nessuna spiegazione, aveva solo salutato dirigendosi verso l’uscita. Poco dopo è stata intercettata di fronte ad un’altra agenzia, lì dove, in vetrina, una gigantografia campeggiava sulle altre e la scritta a lettere cubitali sotto un ameno paesaggio assicurava panorami ineguagliabili, montagne imponenti, paesi deliziosi. E il clima? Gradevolissimo!
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Geniale e ben calibrato il riferimento alla famosa pagina di manzoniana memoria. Con quella leggera ironia, che ormai le riconosciamo come tratto distintivo, Loretta Casagrande invita noi madri, in particolare, a riflettere sulle modalità con cui esprimiamo l’amore verso i figli e ci sprona al coraggio di intraprendere “quel” viaggio che può rivelarsi una rinascita, per noi e per il rapporto stesso.