Ci vuole
più foraggio
a vivere
che a morire.
Fatemi il fieno,
per favore.
Il foraggio di vivere comincia così, senza dare il tempo al lettore di prendere fiato. Del resto, l’autore, lo spezzino Gino Patroni, sosteneva che fosse decisamente preferibile perdere un’amicizia piuttosto che una buona battuta.
Il foraggio di vivere
Leggendo questa raccolta di epigrammi pungenti e implacabili, vien fatto di dargli ragione. Al cento per cento. Ogni battuta persa è una risata sprecata. E quelle di Gino Patroni fanno ridere per davvero. Non come certa roba che si sente in televisione e non solo.
Si va dal leopardiano – e, concedetemelo, geniale − Suicidio di insetto
Stanco di vivere
si butta dalla ginestra
al rammarico insito nel Lamento di coniglio
Ho avuto
un solo figlio.
passando per il lacrimevole Lamento di messicano
Non
ne Azteco
una.
Il meccanismo della comicità
Il meccanismo degli epigrammi di Patroni è molto semplice. Come Achille Campanile e Marcello Marchesi, l’autore gioca con il linguaggio secondo modalità enigmistiche: scambio di vocali e consonanti, inversioni semantiche… e molto altro.
In altre parole, il bisticcio è costruito sulla destrutturazione del linguaggio. Le parole sono svuotate del loro significato originario e mischiate all’interno di un bussolotto da cui vengono estratte nella loro nuova veste.
E bisogna dargliene atto.
Per farlo, ci vuole davvero tanto foraggio.
Gino Patroni, Il foraggio di vivere, Milano, Longanesi, 1987