Spiagge assolate

Scesi dall’auto e mi incamminai per il viottolo fiancheggiato da possenti pini orlati da un sottobosco vario. La strada era lunga circa 1 km, ma non faticavo affatto, procedevo con tutta calma. Si sentivano i versi degli  uccelli selvatici e il profumo avvolgente della marina. In quel paesaggio antico e dolce spiccavo io, con l’arancione della borsa, il giallo della maglietta attillata che stringeva amorevolmente tutto il lardo cresciuto attorno al mio girovita e i pantaloncini bianchi e blu a righe verticali.

Il sentiero finiva su un viale sterrato su cui si apriva una stradicciola mangiato dai rovi. Ai lati si potevano vedere lingue d’acqua. Poi iniziavano le dune alberate; salite lievi e lievi discese . Polvere e fatica.  Finalmente si cominciava a vedere da lontano la linea del mare. Il sole indorava tutto e faceva scendere dal volto strisce di sudore vivo ed erotico.

Piantai l’ombrellone acquistato da un marocchino sulla battigia, mi spogliai e, dopo essermi spalmato la crema solare su tutto il corpo, dorso compreso, da solo, con le due mani, mi sedetti e aspettai il Rag. Pini. Guardai il mare, il cielo azzurro, da sotto i miei occhiali scuri e quasi mi addormentai.

Quanta strada prima di diventare un vecchio, un vecchio sconfitto, tutto sommato. Quante lotte e quanti errori e le pause infruttuose, accatastate le une sulle altre. Ma mi rallegrai per il fatto che dopo tutto ancora c’ero ed ancora avevo il coraggio di godermi una giornata di mare. Scorza dura pensai, questa l’ho avuta. Quanto veleno bevuto, ma dal veleno bevuto sono riuscito a pisciare champagne! E sul viso si disegnò spontaneamente una smorfia cinica e felice.

Da lontano vidi sgambettare il ragioniere, quasi incapace di sostenersi in piedi. Oramai pelato come me, con il tronco rigonfio, le gambe grosse e i polsi mobili, cercava di avanzare con su borse e borsette. Gli feci un segno per indicare la posizione privilegiata che avevo guadagnato. Mi vide e dopo non so quanto tempo mi raggiunse e prima ancora del buongiorno cominciò a lamentarsi.

“Sapesse quante famiglie etero coi figli, che schifo. E’ cambiato tutto. Bimbi strillanti e cani pisciosi” – “non si lamenti ragioniere c’è di peggio: pensi che solo il 53% degli italiani considera grave l’elusione fiscale” – “ vorrei vedere, l’altro 47 % la pratica” – “ eh eh”.

Il Ragioniere s’era finalmente sdraiato attorno a me, steso su un asciugamano con disegnati su pesciolini rossi che si affacciavano da alghe tremolanti. Avevamo finito per parlarci senza neanche guardarci più in volto, io e il ragionieri. Eravamo maschere ormai, maschere di ciò che non eravamo stati, di ciò che avremmo desiderato essere. C’era del grottesco in noi. Non si poteva descrivere come un’amicizia la nostra quanto piuttosto un reciproco sostegno necessario per tirare avanti. Era la somma di due solitudini, niente di più. Io almeno ascoltavo il ragioniere, sebbene non propriamente con un interesse vivissimo, ma lui non mi ascoltava affatto mentre parlavo e non se ne dava pena di dissimularlo. Quando i sodalizi durano da anni non si cerca manco più di correggerli o armonizzarli. Si accettano così come sono.

Con la testa ritta guardavo la distesa decadente del mio corpo. Non provavo neanche più amarezza. Era un dato di fatto. Era andata semplicemente così. Ma i ricordi, quelli ancora pungevano come spilli piantati nella carne. E’ duro accettare, anche verso la fine della propria vita, il fatto di avere vissuto senza vivere. Il sole mi trafiggeva gli occhi, ma il fastidio mi piaceva, mi imbambolava spingendomi indietro tra i decenni trascorsi.

Un giorno, quando ancora ero tutto sommato giovane lessi su facebook i messaggi di amore scritti sotto l’immagine di un bel ragazzo, morto di aids. Tantissimi erano le persone e i ricordi che si accavallavano sotto l’immagine: una concentrazione d’amore infinita. Provai una irrefrenabile invidia per quella vita spesa  fino alla morte. Se solo fossi morto io, quanti avrebbero versato una lacrima?

“Che c’è?” Mi ridestai, un po’ indolenzito. Il Rag. mi stava fissando con comprensione. Ci guardammo negli occhi. “ Nulla Rag., pensavo…” – “ Pensi troppo, hai sempre pensato troppo”.

Gino Pelliccia

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