“Tolstoj e l’ultima profezia” – Stefan Zweig


Voto: 5 stelle / 5

“Tolstoj e l’ultima profezia” di Stefan Zweig è un saggio circoscritto alla maturità e vecchiaia del grande scrittore russo, pubblicato nel 1928. Nel 2015 viene riproposto da Medusa Editore, Collana Le porpore, traduzione di Alessandro Paci.

Lo sguardo dell’autore penetra la terribile crisi di mezza età del conte di Jàsnaja Poljana che si protrasse fino alla scomparsa. Illumina il dramma di un uomo che aderì a un modello di sé costruito a tavolino per combattere l’angoscia della morte.

Di Stefan Zweig abbiamo recensito anche “Vita di Maria Stuarda“.

Trama di Tolstoj e l’ultima profezia

È quando non ha più nulla da desiderare che Tolstoj, novello Giobbe, viene messo alla prova da Dio. Infatti intorno al giro di boa della cinquantina, ai suoi occhi tutto diventa privo di senso e di valore. Gli appare una distesa di ghiaccio il mondo che nessuno scrittore ha saputo vedere e rappresentare con tale intensità, perché solo lui riusciva a prendere la forma del soggetto narrativo. Ricordate come in “Guerra e pace” si immedesima nell’istintualità di un cavallo al galoppo o di un cane da caccia vicino alla preda? L’uomo più grande del suo tempo perde la voglia di vivere, attanagliato dal timore del Nulla che diventa abisso e tormento.

È intuitivo diagnosticare una depressione maggiore coincidente con il climaterio maschile. Ma non fu solo questo come Zweig argomenta a fondo. In un individuo energico, esuberante, sensuale, votato alla vita, nel pieno delle forze come Tolstoj, l’orrore della morte va misurato in relazione al suo vitalismo. Con l’aggravante che la sorte gli aveva risparmiato acciacchi e malattie che generalmente avvicinano i cinquantenni alla consapevolezza della nostra finitudine, a mo’ di ponte psicologico. Perciò la crisi ebbe un effetto deflagrante.

Il pensiero della morte lo trapassa come un colpo d’arma da fuoco. Solo chi vive l’esistenza in modo così pieno può temere la morte con tanta intensità. In Tolstoj si combatte una gigantomachia tra essere e non essere, perché soltanto nature titaniche possono opporre titanica resistenza: atleta della volontà non si dà per vinto senza combattere

E lui combatte per tre decenni una lotta impari contro il destino alla ricerca di senso e intimo conforto. Accantonato l’ateismo, si affida alla filosofia con letture disordinate e compulsive. Si arena nella mitologia del tolstojsmo. Indossa la maschera dell’asceta pago di non possedere nulla. Ma non incantò nemmeno i suoi contadini, maldisposti verso quella che ritenevano un’altra bizzarria del padrone. Imbottigliati in un moralismo imposto dalla ragione, gli scritti di questa fase perdono ogni forza comunicativa. Finché a quest’uomo disperato dal cristianesimo artificiale non rimase che la fuga, da se stesso e da un genius loci famigliare corroso da rancori e incomprensioni.

Nel 1910 si spense nella stanza del capostazione di Astàpovo, con un’uscita di scena degna delle sue aspirazioni evangeliche. Finalmente il gigante, che pretendeva la fede con uno sforzo della volontà, trovò la prima notte di quiete.

Recensione

Il ritratto morale incipitario gareggia con quelli manzoniani, tanto toglie il fiato. Seguono considerazioni sulla sua salute.

Rispetto ai Grandi del pensiero, anche in età avanzata Tolstoj mantenne una fisicità biblica, contadinesca, quasi primordiale. Quando la terza età era un lusso anche per i ricchi, lui caccia indefesso, gioca a tennis, pattina elastico sul ghiaccio, si lancia nei boschi in sella all’amata Delire. La dice lunga sul suo senso di sé, il fatto che patì fin dalla giovinezza una fisionomia grossolana che lo spinse a farsi crescere la barba. Numerose testimonianze attestano la delusione al primo impatto di quanti lo incontrarono.

Una prosa analitica, elegante, ricca di aggettivi enuclea la tragedia interiore di un uomo falso, vanesio, contraddittorio, che non amava il prossimo come avrebbe voluto e come voleva far credere al mondo. Ne era consapevole, non riuscì mai a ingannare se stesso. Fu questa la sua condanna.

Il saggio di Zweig forma un dittico perfetto con quello di Pietro Citati che nel 1983 si aggiudicò il Premio Strega. Meno impegnativo e più frizzante è “Sonata a Tolstoj” del 2010, in cui Barbara Alberti si sofferma senza reticenze sulle complesse dinamiche famigliari.

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