
Il 15 ottobre scorso è uscito per Mondadori il nuovo libro di Daniele Mencarelli, “Brucia l’origine”.
Di Daniele Mencarelli abbiamo recensito anche “Tutto chiede salvezza”. “La casa degli sguardi”, “Fame d’aria”, “Degli amanti non degli eroi”.
Trama di Brucia l’origine
Tra Roma e Milano ci sono solo tre ore di treno, eppure la distanza che Gabriele ha messo tra la sua vita da designer e la sua famiglia di origine è siderale. Non torna nella Capitale da quattro anni e non rivede la comitiva con cui è cresciuto da almeno otto.
Il suo è un ritorno temporaneo, prudente e sottotono, una sorta di “L’arminuta” al maschile; eppure le differenze tra il suo passato e il suo presente iniziano a scavare solchi grandissimi.
Recensione
Ho iniziato l’ascolto di “Brucia l’origine” con aspettative alte, perché dai primi commenti in giro mi ero fatta l’idea di qualcosa che non si riuscisse a smettere di leggere. Questo effetto lo avevano avuto su di me la rabbia e la disperazione del romanzo precedente “Fame d’aria”.
Bè, la fame d’aria mi è tornata, perché nonostante l’immancabile efficacia dell’interpretazione di Federico Cesari su Storytel ho trovato un’ambientazione piatta, ordinaria, soffocante.
“(…) è vero che è rimasta più vicinanza. Non so come chiamarla, sono rimasti uniti negli anni. Il brutto è che fanno la vita di sempre, all’infinito.”
È stato verso la metà che è arrivata una chiave della storia, forse anche con la complicità dello stesso Cesari. Uno dei personaggi dichiara di non avere un lavoro, come se la pensione della madre invalida fosse la sua più alta aspirazione. Qui è stato uno schiaffo in faccia, si è spalancato l’abisso tra la vita mordente che il protagonista conduce a Milano e quella lassa che si è lasciata indietro. Cavolo, ho pensato, qui sono rimasti tutti fermi.
Come dice il titolo, l’origine brucia come una febbre. Chi siamo ce lo portiamo dietro, ma scegliamo noi se lasciare che il passato ci faccia da zavorra o meno.
Il romanzo sembra concentrarsi sulle aspettative, sul successo e su un assunto ai limiti del banale: i soldi non fanno la felicità. Allo stesso tempo, però, sembra interrogarci sulle apparenze e su dove questa felicità possa essere. E ci propone un accenno di risposta nel finale agrodolce, amaro, amarissimo.