Nel 1997 Philip Roth vinceva il Pulitzer Prize con “Pastorale Americana”. Nella sua traduzione italiana (io ho letto quella di Vincenzo Mantovani, pubblicata dal Corriere della sera su licenza Einaudi nel 2018) il romanzo è lungo 458 pagine. Dello stesso autore abbiamo recensito anche “Il complotto contro l’America“.
Trama di Pastorale americana
Il narratore ha frequentato la stessa scuola di Seymour Levov detto lo Svedese; uno di quei ragazzi perfetti, che fanno sempre la cosa giusta e che hanno successo nello sport e nella vita.
Il narratore stesso in giovinezza era soggiogato dalla sua aura e perché no, anche dalla sua bellezza.
Ormai adulto e diventato uno scrittore, viene contattato da Levov perchè sostiene di avere una storia da raccontargli, ma al termine dell’incontro questa storia non si conosce ancora. Ci vorrà un anniversario scolastico, il cinquantesimo, per saperne un po’ di più. O per immaginarlo.
Recensione
Ho affrontato Philip Roth con talmente tante riserve che me lo sono fatto prestare. Dopo le prime cinquanta pagine ero conquistata e a metà libro già pentita: l’ho iniziato a cercare per comprarlo e avere una copia mia a cui fare tutte le piegature che volessi.
“Tutti abbiamo una casa. È lì che va sempre tutto storto”
Cosa mi è piaciuto? La grande capacità di Philip Roth di penetrazione psicologica e di alcune dinamiche personali. Questo aspetto mi ha fatto pensare a Jonathan Franzen. L’uso del discorso indiretto libero e la liquidità fra il narratore esterno onnisciente e il narratore interno in prima persona mi hanno affascinato e tenuta legata.
C’è chi dice che “Pastorale americana” sia il romanzo americano per eccellenza. Io penso che sia qualcosa di più e che mi fa tornare a Franzen. Quello che racconta è espressione di lotte generazionali e individuali a cui apparteniamo tutti. Quanto accade ai personaggi è visto anche attraverso la Storia e abbiamo una panoramica efficace del tempo che passa.
Guardiamo anche la genitorialità in maniera diversa: come una sabbia che è impossibile tenere completamente sotto controllo. Subirà sempre un’influenza esterna: da parte degli altri membri famigliari, dei pari, della società.
“Tre generazioni. Tutte avevano fatto dei passi avanti. Quella che aveva lavorato. Quella che aveva risparmiato. Quella che aveva sfondato. Tre generazioni innamorate dell’America. Tre generazioni che volevano integrarsi con la gente che vi avevano trovato. E ora, con la quarta, tutto era finito in niente. La completa vandalizzazione del loro mondo”.
Dal mio punto di vista la narrazione si è sempre mossa molto fluidamente, sì con molte regressioni, ma senza grossi voli pindarici. In genere ho riscontrato associazioni mentali molto opportune, che non ho faticato a comprendere.
Ho trovato seguire il Philip Roth di “Pastorale americana” non più difficile di un Saramago ne “Il memoriale del convento”.