Quando ci svegliamo la mattina con l’idea di andare a fare Jogging, la prima cosa che puntualmente sentiamo è un freddo sadico e insensibile, scagliato dall’aria contro il tepore rancido del nostro letto. Per alzarsi, e tenere fede all’obiettivo, servono una serie di complicatissimi processi. Molto spesso li chiamiamo stimoli. Altre volte, motivazioni. Il nome che usiamo non è mai lo stesso eppure, più in generale, qualunque cosa sospinga il nostro corpo verso l’energia, lontano dalla pigrizia e dall’indolenza, finisce per assumere nel nostro cervello i tratti beffardi e sfuggenti dell’impresa.
C’è però qualcuno che non la pensa così. Non è uno sconosciuto e neanche l’ultimo arrivato. Non è nemmeno delle nostre parti, anche se, strano a dirsi, sembra capirci come nessun altro. Si chiama Murakami Haruki e nel 2007, in un mondo che ormai sembra distare secoli, ha pubblicato “L’arte di correre”, un’operetta dal sapore orientale ma dal DNA profondamente umano. Stimolo? No. Motivazione? No. Altra roba tratta direttamente dalle mura incise di una palestra? No, di nuovo. Il nome che Murakami ha donato a tutto questo è Arte. Anzi, per essere precisi, “L’arte di correre”. Dello stesso autore abbiamo recensito “After dark”, “Kafka sulla spiaggia“, “1Q84“, “Norvegian wood“, “L’incolore Tazaki Tsuruku e i suoi anni di pellegrinaggio” e “A Sud del confine, a Ovest del sole”.
Trama de L’arte di correre
Narrativamente parlando, non c’è un vero e proprio intreccio a guidare le pagine. L’incipit rivela alcuni aspetti sul suo autore che forse non tutti conoscevano. Murakami fumava molto, anzi moltissimo. Gestiva un bar, scriveva poco, anche se sempre con grande piacere. Poi, la svolta. L’ultima sigaretta scagliata lontano dalla sera alla mattina. La corsa, la voglia di correre. Il bisogno di correre. Disciplina, costanza, volontà. Non sono principi, ma i frammenti delle lettere che compongono la parola arte.
Lo scrittore giapponese struttura la sua opera come una sorta di diario, vergato durante situazioni e luoghi sempre diversi. Al centro di questi brevi incisi c’è il suo allenamento e la sua preparazione fisica. Maratone, ultramaratone, corsette mattutine ed esercizi. Ogni tanto, durante i monologhi, Murakami accantona l’aspetto agonistico per concentrarsi su altro. È il caso della propria esperienza col mestiere di scrivere, raccontata attraverso dei piccoli aneddoti sempre preziosi e utilissimi.
Recensione
“L’arte di Correre”, se letto di fretta, potrebbe durare una manciata di ore. Eppure, a meno di non assimilare ogni singola parola, l’opera di Murakami regala le emozioni maggiori a chi lascia scorrere sulle sue pagine il velo rassicurante della pazienza. Ogni capitolo, pur raccontando esperienze che in certo senso si somigliano tutte, possiede la capacità di insegnare a tutti qualche piccolo dettaglio. Consente a chiunque di fermarsi un attimo a riflettere su di sé. Consente, abbiamo detto. Non costringe.
Lo stile è rapido, molto più leggero di quello cui siamo abituati. La penna viaggia, punta al finale e scende in fretta. Passo dopo passo, emerge una sorta di familiarità. Murakami, schivo e timido nella vita privata, sembra d’un tratto prenderci da parte per sussurrare qualcosa. E sarà proprio quel sussurro la lezione più importante dell’opera, quella che più di ogni altra scalerà il torace per giungere alla vetta. Lo scrittore giapponese, dunque, regala a tutti qualcosa che trascende il confine delle pagine. Per riceverne il dono, basta ascoltare quel sussurro. Conservarlo. Farne tesoro. A quel punto, forse, potremmo dire di aver compreso cosa sia davvero l’ “arte di correre”.